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#interviste. Elettra Stamboulis, l’arte politica di Zehra Doğan. Disegnare con il sangue

Scritto da il 24 Febbraio 2021

4 minuti di lettura

Il 24 febbraio del 2019, Zehra Zoğan (classe 1989) usciva dalle carceri turche. Artista, attivista e giornalista curda, ha scontato 2 anni, 9 mesi e 22 giorni di prigionia per aver disegnato l’orrore dell’esercito turco. Pluripremiata in diversi paesi del mondo, continua a vivere le contraddizioni burocratiche dovute alla condanna da terrorista. Ci parla della sua arte e del rapporto con la Turchia Elettra Stamboulis, attivista, curatrice artistica, scrittrice e dirigente scolastico che ha curato la prima mostra di impianto critico curatoriale italiana dal titolo Avremo anche giorni migliori – Zehra Doğan. Opere dalle carceri turche.

www.stamboulis.org

Nell’intervista rilasciata alla giornalista Francesca Nava, Zehra dice: “I popoli europei si battono per i diritti umani e sono molto solidali con il popolo curdo, gli Stati europei invece mostrano ambiguità. Nel massacro di Nusaybin le armi erano svizzere, i carri armati vengono venduti alla Turchia dalla Germania, gli elicotteri impiegati nel bombardamento di Afrin sono di produzione italiana”.

Prima di soffermarci sull’arte politica di Zehra Doğan, vi racconto della sua Resistenza.

Zehra Doğan è stata arrestata per aver pubblicato la lettera di una bambina curda di 10 anni e per aver diffuso su Twitter un acquerello che mostrava la città di Nusaybin distrutta dall’esercito nazionale nel giugno del 2016. L’immagine è stata rielaborata da una fotografia scattata da un soldato russo dopo l’assedio, presa dall’account delle polizie speciali. Nell’immagine Zehra ha cambiato il punto di vista, trasformando i blindati in scorpioni.

È stata arrestata con l’accusa di propaganda terroristica scontando il periodo di detenzione nelle carceri di Mardin, Diyarbakir e Tarso.

Durante la detenzione, Zehra ha realizzato opere artistiche lavorando con le compagne di cella, utilizzando supporti fragili e inconsueti come giornali, tovaglie, indumenti e lenzuola. Per dipingere ha dovuto trasformare in colore gli elementi tratti dal quotidiano, ha infatti utilizzato caffè, penna a sfera, matita nera, curcuma, succo di melograno, cenere, escrementi di uccelli, cavolo nero, tè, succo di prezzemolo, candeggina e sangue mestruale.

Sangue mestruale, matita su carta. Prigione di Diyarbakir, 2017
Fotografia di Jef Rabillon

 

Sono immagini dalla grande potenza espressiva e complessità linguistica che raccontano la resistenza al dolore, la lotta al regime di Erdoğan e al patriarcato.

L’artista è stata una delle fondatrice dell’agenzia giornalistica Jinha, in seguito chiusa da un decreto governativo, in un contesto in cui i media sono gestiti da uomini, ha raccontato le storie delle violenze sulle donne Yazide, una minoranza dell’Iraq, ha raccontato i soprusi e le violenze in Turchia.

La storia di Zehra ha suscitato la sensibilità del mondo dell’arte internazionale: Ai Weiwei le ha scritto una lettera personale e Banksy le ha dedicato un’opera su uno dei muri più ambiti di Manhattan, il Bowery Wall, raffigurandola dietro le sbarre mentre impugna l’arma più potente: una matita.

 

Le opere dell’artista sono uscite dal carcere grazie all’impegno di una rete di attivisti che le ha portate in Francia, e prima che l’artista venisse liberata, è stata realizzata la prima mostra itinerante per sensibilizzare la coscienza collettiva.

Dopo il successo alla Tate di Londra nel maggio del 2019, dove l’artista si è esibita con un’estemporanea, le opere sono state esposte anche in Italia, prima Brescia e poi Milano.

In Turchia pochissime persone conoscono la sua arte, ma di recente una sede espositiva di Instanbul ha avuto il coraggio di raccontare l’arte politica dell’artista esponendo i suoi lavori. Zehra Doğan, esule a Londra, non ha potuto vivere l’emozione della prima.

Penna a sfera, caffè, curcuma, succo di prezzemolo su giornale. Prigione di Diyarbakir, 2017
Fotografia di Jef Rabillon

 

Lo scorso anno Brescia è stata la prima città italiana ad ospitare le opere dell’artista allestendo la prima mostra di impianto critico curatoriale al Museo di Santa Giulia dal titolo evocativo Avremo anche giorni migliori – Zehra Doğan. Opere dalle carceri turche, curata da Elettra Stamboulis, attivista, scrittrice e dirigente scolastico.

Insieme alle opere sono state esposte le lettere scritte in carcere.

Caffè, pennarello, vernice all’acqua. Prigione di Tarso, 2018 Fotografia di Onur Erem

 

L’arte politica di Zehra Doğan raccontata dalla curatrice d’arte Elettra Stamboulis nella nostra intervista.

Valentina M. Di Salvo. Prima di concentrarci sull’arte di Zehra Doğan, vorrei fare una breve introduzione sulla repressione e sull’ambiguità della Turchia nei confronti della popolazione che si oppone al regime attuale. Cito le accuse che le autorità hanno lanciato contro gli studenti di una Università molto prestigiosa di Istanbul a seguito di oltre 170 arresti: “Non riteniamo che questi giovani, membri di organizzazioni terroristiche, abbiamo veramente i valori nazionali e morali del nostro Paese. Questo paese non sarà un paese dominato dai terroristi. Non lo permetteremo. Questo paese non rivivrà episodi come gli eventi di Gezi e non permetterà che si ripetano”.

Gli studenti erano scesi in piazza per manifestare contro il decreto di Erdoğan: un uomo molto vicino al governo è stato messo a capo dell’Università, minando la forma di autonomia protetta fino a quel momento. In Turchia sono moltissime le persone obbligate al silenzio dietro le sbarre di una prigione, con l’accusa di terrorismo. Artisti, scrittori, giornalisti, politici, ma anche dipendenti pubblici.

Elettra Stamboulis. Il regime autoritario di Erdoğan si è contraddistinto per l’uso indiscriminato e diffuso della carcerazione per reati di opinione. Certo, non è una pratica che ha inventato il Sultano del Mar Nero. Già in un rapporto di Amnesty del 2003 si denunciava l’uso diffuso della violenza sessuale e dell’abuso: Le vittime – diceva il rapporto – sono soprattutto le donne curde e coloro che hanno idee politiche inaccettabili, dal punto di vista delle autorità o dell’esercito. Vengono spesso denudate, bendate e perquisite da agenti di sesso maschile durante gli interrogatori che si svolgono nelle stazioni di polizia o in prigione. Sono inoltre costrette a sottoporsi a test della verginità, allo scopo di punirle e umiliarle. Nel 2018 il collettivo Correctiv ha messo insieme un team internazionale di giornalisti investigativi per verificare l’esistenza dei Black sites, luoghi di detenzione alla Guantanamo, utilizzati in particolare per i seguaci di Gülen, ex alleato del primo ministro accusato del tentato golpe del 2016. Il governo di Ankara non ha mai risposto alle accuse.

Di fatto detiene un primato: è la più ampia prigione per giornalisti al mondo. Almeno 160 tra scrittori e giornalisti erano dietro le sbarre nel 2018 e 116 erano ancora imprigionati nel 2019 secondo i dati analitici di Pen International. La galera, ma anche il licenziamento, sono l’arma più utilizzata per tacitare le voci critiche del Paese.

Il movimento di Gezi del 2013, a cui parteciparono sostanzialmente giovani, costò la vita ad 11 persone e più di 8.000 feriti. La protesta metteva insieme temi tipicamente metropolitani, come Occupy Wall Street, che partivano dall’uso pubblico e collettivo degli spazi della città, a tematiche più nazionali e legate all’identità laica fondativa della Repubblica Turca, che Erdoğan e il suo partito hanno cercato, e in parte sono riusciti, a smontare pezzo a pezzo.

I movimenti sono però come fiumi carsici, sembrano scomparsi per un po’ quando arriva il pugno di ferro, ma non si sopiscono. Così la reazione degli studenti dell’università di Boğaziçi si inseriscono in un clima perdurante di conflitto, che apparentemente risulta appianato solo dalla repressione.

Il colpo di stato civile verso l’autonomia universitaria è stato subito recepito per quello che è: non è semplicemente la nomina di un amico degli amici: questo è ormai costitutivo in tutti i settori della pubblica amministrazione in Turchia. Il kayyum (termine arabo usato in senso spesso dispregiativo ovvero l’amministratore fiduciario nominato dal capo) è ormai diventata la norma, ma certo nominare un docente addirittura esterno all’Ateneo e farlo nominare addirittura da Erdoğan supera la misura.

Su carta, acrilico, pennarello, carta dorata. Luglio 2020 Angers, Francia. Prometeo Gallery, Milano. Collezione privata
Fotografia di Ludovica Mangini

 

V. L’arte rimane uno dei linguaggi capace di passare tra le grate di una prigione e diventare messaggio. È su questo che vorrei soffermarmi, parlando di arte, di messaggio e di idee condivise. Come hanno fatto le sue opere ad arrivare in Europa e quanto è stato importante l’impegno degli attivisti e della madre di Zehra?

E. Zehra è una femminista, giornalista e artista. Questi aspetti sono intersecati e connessi in modo integrale nella sua biografia e nella sua azione. Non è possibile per lei tracciare una linea tra di loro. In tutte e tre queste dimensioni l’aspetto relazionale è centrale: l’ascolto, il lavoro collettivo e in rete sono aspetti correlati. Così la sua vicenda carceraria si è tramutata in una vicenda che ha intersecato le vite di molte, detenute politiche e comuni. In carcere se non si riesce a collaborare si può soccombere, ma soprattutto si può perdere la forza di lottare e creare. Per Zehra è stata un’esperienza durissima e traumatica, ma come dice lei anche l’occasione per diventare meno pigra… Non si può perdere tempo tra le sbarre: così l’organizzazione e gli stimoli delle altre detenute politiche sono diventate l’occasione per usare uno strumento di resistenza che è diventato anche il messaggio. Non puoi incarcerare i sogni, i corpi possono essere parte di un’opera che riesce a sfuggire al controllo dei secondini e tramutarsi in lettera per l’umanità. Il ruolo dell’avvocata, della famiglia, degli attivisti è stato quello che prendere questo messaggio collettivo, che non era e non è solo individuale e questo va sempre precisato nel quadro narcisistico patriarcale che caratterizza per ragioni storiche e antropologiche la nostra tradizione culturale.

Pennarello, acrilico su carta. Luglio 2020 Angers, Francia. Prometeo Gallery, Milano. Collezione Iannacone
Fotografia di Ludovica Mangini

 

V. La prigionia di Zehra inizia per la lettera di una bambina e per un disegno. Eppure lei non ha mai perso la fiducia nelle immagini e nel loro potere comunicativo. Le cito una frase di Zehra tradotta da Xerip Siyabend, estrapolata da una lettera scritta dal carcere. Per potersi definire artista bisogna meritarselo e bisogna passare questo esame. Così è cominciata la mia ricerca. Ho iniziato a dipingere con l’immaginazione.

E. E perché avrebbe dovuto? Anzi, l’essere arrestata proprio per un’immagine mostra, se ce n’era ancora bisogno, quanto le immagini possono essere potenti. Non c’è bisogno di disturbare Freud, ma il perturbante contenuto nel messaggio visivo non può essere cancellato così facilmente come quello espresso con le parole. Non solo perché non necessita di traduzione (e non è poco), ma perché colpisce senza mediazioni. Prima di quel disegno Zehra aveva scritto molti articoli scomodi e importanti, ma guarda caso si sono attivati proprio per un disegno su Twitter.

Penna a sfera, acquerello su giornali. Prigione di Mardin, 2016
Fotografia di Onur Erem

 

V. Zehra ha sofferto molto, eppure sembra non aver mai perso fiducia in quella parte di umanità che può essere sollecitata con l’arte e la cultura. Per farlo ha avuto molto coraggio. Lo sguardo dell’artista coincide con quello di moltissime persone obbligate al silenzio e si intreccia ai soprusi del governo turco. Nel carteggio scritto dal carcere, l’artista parla anche della sua posizione politica e della lotta contro il patriarcato.

E. Vorrei sottolineare quanto per Zehra sia importante la parola politica, che in Italia si fatica ad usare in questi casi perché considerata scabrosa. Ma anche tacerla significa essere conniventi. Anche chi non fa “arte politica” indirettamente opera un’azione politica, che è quella della rimozione, dell’individualismo, dell’ignavia.

Acrilico su giornale. Giorni clandestini, Instanbul, 2017
Fotografia di Jef Rabillon

 

V. Quello di Zehra è un “noi” molto forte. Trapela anche dal titolo della mostra “Avremo anche giorni migliori – Zehra Doğan. Opere dalle carceri turche”, che lei ha realizzato per l’artista al Museo di Santa Giulia di Brescia lo scorso anno. Tre stanze diverse, un percorso narrativo di circa 60 opere. Parole scritte durante la detenzione.

E. È stata sicuramente una bella avventura, che ha visto una serie di fortunati incontri e ha permesso di narrare, mostrare e valorizzare un intenso percorso artistico e civile. Anche in questo caso il lavoro collettivo è stata la chiave. Sicuramente la mia origine, la mia conoscenza della Turchia e la mia relazione con il mondo degli attivisti e delle attiviste, hanno contribuito all’intuizione, ma senza il lavoro appassionato di tanti, dal direttore di Brescia Musei alla sua Presidente, dall’Assessore alla cultura della città lombarda, al personale tutto del museo e anche, devo dire, all’entusiasmo dell’ufficio stampa, non sarebbe stato un lavoro così serio e importante.

Acrilico su giornale. Giorni clandestini, Instanbul, 2017
Fotografia di Jef Rabillon

 

V. Qual è stato l’impatto della storia di Zehra sul pubblico della mostra?

E. L’impatto è stato molto forte. Ho osservato da vicino i visitatori del museo, che potevano essere i più disparati. Dall’esperto di arte contemporanea, al collezionista, ma soprattutto tanto pubblico semplicemente umanamente empatico. Le opere di Zehra hanno quell’alto valore della semplicità, intesa come la vedeva Calvino quando sosteneva che La semplicitànon è il risultato di una difficoltà evitata, ma il frutto di una difficoltà risolta. E quella difficoltà è evidente dal contesto, dai mezzi, ma anche dalla necessità di mediare il dolore e la sensazione di sconfitta per poter attraverso la bellezza esporre la sofferenza di un popolo.

 

V. Uno dei temi dell’artista è la Resistenza. Cambiando totalmente scenario ma rimanendo a Brescia, mi viene in mente l’opera che Zehra ha donato alla Fondazione Brescia Musei lo scorso 20 luglio 2020, dedicandola alla lotta al Covid-19.

E. Zehra durante il lockdown si è trovata bloccata a Ginevra a casa di due amici curdi. Questa situazione, tutto sommato privilegiata, l’ha portata ad una riflessione profondamente empatica verso quanto la città di Brescia stava vivendo in quel momento, improvvisamente imprigionata non da un despota, ma da un virus. Così è nato questo dono, un gesto innanzitutto di riconoscenza verso la città italiana che per prima l’ha accolta come artista, e poi come segno di speranza. Una donna che visibilmente opera nella sanità e usa la fionda, quell’arma simbolica dell’Intifada, per sfidare il virus. In fondo in questa immagine è sintetizzato quanto stiamo vivendo, siamo armati veramente solo di una fionda contro il virus che ha sconvolto le nostre vite e che continuerà a convivere con noi per un po’, non si sa quanto, e che può essere sconfitto solo dalla nostra resilienza. E dalle donne.

 

© Riproduzione riservata

 

 

Fonti

www.rfi.fr

www.tr724.com

www.stamboulis.org

http://zehra.dogan.free.fr/portfolio/

 

Fotografi

Jef Rabillon

Refik Tekin

Lila Montana

Onur Erem

Prometeo Gallery Milano

Cassetta Rossa Spa

Ludovica Mangini

 

Ringrazio Naz Oke per i dettagli


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